La Val delle Rose e la vale Iannanghera ovvero l'anello del Monte Boccanera

Centosettantaquattro vette. Sono tante, tantissime, e sempre più complicato diventa pensare a nuove escursioni che possano ancora premiare con qualche cima senza doversi avventurare in imprese impossibili da rocciatori. Ce ne sono per carità, ma o sono di grandissimo interesse e fuori dalla mia portata per le difficoltà alpinistiche che nascondono o banali e prive di quel quid in più. Ce ne è una terza di categoria, anzi non ci dovrebbe essere, ma proprio per il motivo intrinseco che non dovrebbe esserci sta diventando il nostro desiderio proibito; sono quelle montagne proibite, proibite dalla legge del Parco Nazionale di Abruzzo, Lazio e Molise. E la giornata di oggi doveva essere di quelle fuorilegge, da tenere nascosta e non raccontata, si fa per dire! Lo Iammiccio. La montagna solitaria nel mezzo del parco, invisibile a causa del fitto bosco che la copre quasi fino in vetta, minuscola al cospetto del roccioso e vicinissimo Petroso. Quella vetta doveva essere il nostro premio, e non solo; percorrendo la Val di Rose, una volta al di la del Passo Cavulo, raggiunta Forca Resumi, l’idea era quella di farsi tentare dal Monte Petroso. Piaciuta tantissimo l’idea a Luca, non ottenuta l’adesione da parte di altri, partiamo prestissimo contando su una giornata dalle condizioni meteo, almeno stando alle previsioni, strepitose. Non sono ancora le 7 che siamo già sul sentiero della Val di Rose. Punto di partenza Civitella Alfedena come sempre da queste parti per le partenze verso i sentieri del Parco. Una temperatura dolce per il periodo e per l’ora, fresca non fredda, ci aiuta a salire in fretta i primi tornanti attraverso un bosco ormai spoglio e a ritrovare i conosciuti affacci sul Lago di Barrea. I colori di una alba ancora in fasce ci regala un paesaggio tenue dominato dal lago e dai toni delicati delle brume autunnali. L’aria ferma fa il resto e la dolcezza del paesaggio si impossesa di noi. La Val di Rose; c’è voluta una seconda escursione sui suoi sentieri per capirne la toponomastica: il percorso è costellato da una serie infinita di piante di rosa selvatica ed è immediato il desiderio di ritornare a curiosare nel periodo primaverile estivo. Una valle che dovrebbe essere un trionfo di colori ed una golosità per chi ama fotografarne le essenze. Superato il primo piano sotto il Monte Mava ed entrando decisamente nella valle i costoni del Boccanera si fanno imponenti e tra il bosco i primi squarci verso la parte alta della valle mostrano già un territorio decisamente innevato. Una vista bellissima ad anticipare gli scenari invernali ma che mi ha procurato non poca ansia; la perenne positività di Luca consigliava di non pensarci su e di non preoccuparsi troppo ma l’aver dimenticato completamente l’attrezzatura invernale mi stava cominciando a dare un fastidio sottile, quasi un nervosismo premonitore. Continuiamo veloci nella parte più stretta della valle, dentro un bosco fermo nella sua quiete irreale e sovrastati dalle pareti strapiombanti del Boccanera. Intorno ai 1600 metri, sul finire del bosco, dove la valle si allarga per dare sfogo allo scenario impareggiabile delle creste che culminano nel Passo Cavulo la neve inizia a marcare la sua presenza. Ghiacciata, prima uno strato sottile poi in pochi metri di dislivello una presenza decisa ed anche intimamente ingombrante. Il mio scarpone trovava neve rumorosa stretta dal freddo ed accompagnava i miei pensieri lassù, cinquecento metri più in alto, nelle pendenze dell’anticima nord del Petroso, pensieri sempre più torvi e silenziosi. Fuori dal bosco, per piccoli balzi agili fa superare tra la miriade di colline che componevano la parte alta della valle, sotto i tornanti di Passo Cavulo un paio di coppie di camosci ci attendevano. Per niente impauriti, quasi incuriositi sono rimasti a crogiolarsi al sole; la prima coppia sulle falde del Capraro tra le roccie spoglie di neve, la seconda, in uno spettacolare controluce, si mostrava spavalda sulle creste del Boccanera con lo sfondo turchese di un cielo cristallino. E’ stato semplice pensare alla stupidità dei divieti del parco; silenziosi siamo passati in mezzo alle due coppie a circa cinquanta metri di distanza, forse meno, dagli animali; li abbiamo osservati, fotografati e loro non si sono affatto curati di noi. D’altra parte gli intrusi eravamo noi, loro erano al sicuro in un territorio amico; per quale ragione le leggi hanno deciso di considerarci invasori e disturbatori della quiete degli animali quando loro stessi non si sono lasciati infastidire per niente turbati dalla nostra presenza? La stupidità e l’incapacità umana impera anche tra queste cime viene da pensare; per l’incapacità dei sorveglianti e delle istituzioni di un controllo di qualità su chi sale in montagna anche gli amanti come noi devono sottostare a vessazioni e privazioni. Quelle due coppie di camosci erano uno spettacolo dentro lo spettacolo del territorio che avevamo intorno; noi siamo entrati in scena e chi doveva essere disturbato e quindi difeso non si è affatto curato di noi. Qualcosa sfuggiva alla mia comprensione. Raggiungiamo Passo Cavulo, una ferita della cresta, un taglio nella roccia che come una quinta di teatro ci fa entrare in una scena completamente diversa. Il sole intanto, al di la del valico veniamo investiti dal sole, caldo, piacevole, rassicurante in una calma di vento insolita per queste altezze e per questi periodi; la valle sotto il Capraro e il piccolissimo laghetto, la salita verso il Capraro e l’inconfondibile profilo del Balzo della Chiesa dominato dai pini mugo e dominatore dei nostri incubi montani; ma davanti, a confondersi in un’accecante controluce le sagome slanciate del Petroso e più ad est quella scura dello Iammiccio, le nostre inconfessabili mete. La neve è alta e sprofondiamo; il sole ha già prodotto i suoi effetti, e da speranza per la fattibilità della salita delle cime. Incrociamo delle impronte, enormi, inconfondibili anche per la nostra ignoranza, sono quelle di un orso, probabilmente di una coppia. E’ emozionante vederle quasi fosse la necessaria prova che in quei posti questi signori della natura esistono davvero. Scontorniamo la depressione valliva e le pendici del Capraro per poi salire un tratto selvaggio fino a raggiungerne la cresta Sud ma sbagliando e producendoci in una inutile fatica. Raggiunta la cresta ci accorgiamo che il sentiero giusto proseguiva in basso ed una volta superata la parte terminale della cresta raggiungeva in piano la sella ed il rifugio omonimo di Forca Resumi. Non ci rimaneva che scendere, quindici minuti di scalettamento su un pendio insidioso e raggiungiamo il rifugio. Chiuso ovviamente. La luce intensa, il riverbero del sole sulla neve e l’azzurro profondo del cielo a stento vengono contenuti dagli occhiali e a fatica possiamo guardare verso la cima del Petroso e verso lo Iammiccio. Ad Ovest invece lo sguardo spaziava verso le creste delle montagne che ci avevano ospitato solo una settimana prima, Rocca Altiera e Bellaveduta e verso la profonda Valle Tre Confini. Non potevamo che rabbrividire scorgendo le pendici del Balzo della Chiesa, ed il trionfo della nostra stupidità dell’anno precedente, quando per evitare il ritorno attraverso la sella tra il Balzo ed il Capraro irta di Pini Mugo ci siamo inoltrati e sprofondati dentro questa valle. Un momento per fissare nella nostra mente il territorio da quell’angolatura e per immortalarli nelle nostre digitali che riprendiamo verso la nostra meta principale. Era giunto il momento della verità. L’anticima Nord del Petroso era li sopra, vicinissima e ripida a nemmeno duecento metri di dislivello dalla sella. Un sentiero comodo taglia il finco della montagna e sale lentamente portandosi verso la parete nord del Petroso, quella in ombra, e ce ne accorgiamo subito. Come varcato il limite del sole la crosta nevosa cambia di consistenza, diventa dura e nemmeno si fa scalfire dagli scarponi. Ciò che da ore ormai mi portavo dentro si è manifestato semplicemente, come fosse una regola scritta; pochi passi ancora a saggiare il terreno, uno sguardo verso il basso per capire una scivolata dove ci avesse portato, più avanti la parete si faceva ancora più ripida e scoperta, e la ritirata è stata inevitabile. Luca non ne voleva sapere di arrendersi, qualche passo indietro per ritrovare il sole e ha preso sulla verticale per raggiungere la prima gobba della cresta, là, dove un altro camoscio ci osservava probabilmente ghignando della nostra goffagine nello stare in piedi. Raggiungiamo la gobba, la cresta da dove possiamo riprendere a salire agilmente verso la cima; la pendenza è minima ma la neve è dura; un tratto di roccie scoperte ci agevola la salita anche perché verso est la parete precipita verso la confusione di salti, e guglie che anticipano lo Iammiccio. Da quella posizione lo Iammiccio appariva irragiungibile; un dedalo di valli inserrate le une sulle altre, ripidi pendii popolati di bosco vergine ed intricato, salti continui e mancanza assoluta di un sentiero logico. Tutto sembrava contro di noi. Per ora non rimaneva che tentare col Petroso che dopo pochi passi appariva, nella sua anticima Nord a pochi metri da noi; pochi metri fatali però. La guglia era ripida e completamente innevata; solo verso est poche roccie scoperte davano maggiore possibilità di passaggio ma erano sul lite del baratro. Luca voleva passare da li ma l’ho giudicato troppo pericoloso senza attrezzatura; un solo minimo errore sarebbe stato micidiale. Verso est alcuni canali tra le roccie potevano assicurare una buona salita ma indispensabile risultava l’attrezzatura di ramponi e piccozza. Stessa cosa l’aggiramento verso Est dell’anticima. Insomma io mi ero arreso ed avevo fatto prevalere la prudenza. Luca invece insisteva, parlava con me e guardava quei pochi metri che lo dividevano dalla vetta; si stava bruciando per la prima volta con una rinuncia a pochi metri dalla vittoria. Alla fine si è arreso anche lui, a malincuore, massacrando l’anima e gli entusiasmi per essersi fermato così vicino dalla meta. Lo capivo, ma ricordavo anche le mie sensazioni quando mi sono trovato i quella situazione; avvvilimento sul momento ma anche insegnamento prezioso per il sapere andare con sicurezza in montagna. Ho sperato che potesse succedere anche per lui quando ho voltato la schiena alla vetta. Nello scendere abbiamo incontrato uno scalatore solitario, questo si munito di ramponi e piccozza, che si è poi manifestato essere una guida ed un mebro del soccorso alpino; nel ricordarci prontamente che eravamo su di una montagna proibita ha anche dimostrato di aver capito il nostro spirito. Ha approvato la ritirata per mancanza di attrezzatura e quasi a volerci far pesare meno la sconfitta ci ha raccontato di diversi episodi di salvataggio in cui è stato coinvolto, alcuni dei quali terminati tragicamente. Come dire che la montagna da li non si sarebbe mossa e che con un atteggiamento più prudente la prossima volta l’avremmo docilmente conquistata. Visto che c’eravamo Luca gli ha chiesto informazioni su come raggiungere lo Iammiccio; a parte la conferma che anche questa montagna ricade nella zona di divieto assoluto ci ha anche fulminato con l’assoluta impossibilità di poterlo salire da questo versante. Proprio per l’intricata e selvaggia conformazione del territorio avremmo consumato il tempo nei tentativi di cercare passaggi possibili ed una volta passati avremmo avuto le medesime difficoltà in discesa. Di fatto non c’era abbastanza tempo per salire e scendere visto che si erano fatte già le 11 della mattina; lo Iammiccio di doveva raggiungere dall’altro versante, dal versante di Lago Vivo. Il cielo era sereno ma a noi l’informazione ci ha folgorato come fosse stata una saetta in pieno temporale. Non rimaneva che fare buon viso a cattiva sorte. Un po’ depressi, Luca soprattutto che assaggiava la prima escursione senza vittorie, salutiamo il nostro saggio ed esperto interlocutore e ci incamminiamo verso il basso. L’altezzosa escursione per la conquista del Petroso e dello Iammiccio programmata e sognata per tutta la settimana si è tramutata nel periplo del Monte Boccanera che per i cultori della materia è poi il più classico dei classici trekking del Parco; Val di Rose e la selvaggia Val Iannanghera da Civitella Alfedena. Non sostiamo nemmeno al rifugio; prendiamo veloci a scendere per le ripide svolte del sentiero. La neve è ormai molle e bagnata, in pochi minuti siamo al limitare del bosco. Da subito la Val Iannanghera ha confermato la sua fama di luogo selvaggio; un sentiero tra sbalzi ed alberi, poco lineare ma entusiasmante; da prima ripido e poi lento a perdere quota, sempre dentro un bosco affatto manutenuto, completamente lasciato a se stesso, aspro ed affascinante, stretto tra le ripide coste del Boccanera e dello Iammiccio. Che spettacolo la cresta dello Iammiccio da li, spoglia, verticale, audace. Poi la valle si è allargata, ha perso la pendenza tanto che per lunghi tratti non sembrava nemmeno che stessimo scendendo. La boscaglia ha lasciato il posto ai Faggi alti e spogli prima e poi ad ampie e piatte radure che si aprivano tra il bosco e che si susseguivano quasi senza perdere quota; una sorta di altopiano inserrato e stretto, oasi di pace in mezzo a tanta selvaggia natura. E qua e la a dominare il paesaggio la presenza di autentici monumenti naturali; Faggi secolari probabilmente, dalle circonferenze improponibili, dalle chiome incontenibili e da una possenza che facevano apparire i Faggi del bosco circostante dei fuscelli. Ho voluto fotografarli, di rado si incontrano alberi di così tanta bellezza; camminado veloci in mezzo ad un tappeto di foglie ci stupivamo di continuare a mantenere una quota di 1500 metri senza perderne alcuno. Stavamo facendo una vera e d autentica passeggiata come fossimo stati in parco di città. Solo le creste che ci dominavano parlavano del luogo selvaggio dove eravamo. Poi uno scoscio d’acqua ha cominciato a diffondersi nell’aria; non c’era segno di ruscello fino a quando il canto dell’acqua si è fatto dirompente. Da una spaccatura nelle valle, lato sud verso le coste dello Iammiccio nasceva quel rumore. La Fonte Iannanghera. Dalle rocce fessurate e sfaldate, laggiù in basso, trenta metri sotto il manto delle foglie sgorgava copiosa una polla d’acqua. Fredda, chiarissima, da bere. Tra balzi rumorosi ed altre polle, l’acqua prendeva velocità e rumore ed andava a formare un copioso ruscello con destinazione il Lago di Barrea. Un angolo inaspettato di bellezza selvaggia. Risaliamo la superficie del bosco, non rimaneva che riprendere verso Civitella; il sentiero virava verso nord aggirando le ultime propagini boscose del Boccanera; il, lago era sulla nostra sinistra e senza grossi dislivelli, sempre dentro il bosco, incrociamo non senza essere comunque stanchi il sentiero della Val di Rose. Erano le 13 esatte quando raggiungiamo l’auto. Ci aspettava una degna conclusione della giornata; lungo il percorso di ritorno una sosta mangereccia presso l’osteria di Forca d’Acero che non avrà meno motivazioni della natura incontrata per essere ricordata. L’escursione ci ha tolto le cime sognate ma ci ha comunque dato tanto in qualità di paesaggio e di clima e perché no, ha rinsaldato una amicizia nata sul posto di lavoro e che ha saputo trovare conferma tra le cime delle montagne.